che cos’è la vita? domande e risposte con Antonio Carbonelli – 267

l’amico Antonio Carbonelli ha commentato qui una mia breve osservazione su un passaggio del suo ultimo libro Antonio Carbonelli, Platone e Aristotele. Fondamenti del pensiero etico, politico, economico e giuridico nel terzo millennio, Brescia, 2021: v’è persino chi ipotizza che anche l’essere si possa considerare come una categoria del pensiero, volta a cercare di organizzare la conoscenza della realtà, dato che essa è sempre in movimento e mutamento; la riprende e la sviluppa in modo molto persuasivo, tanto che ci troviamo pienamente d’accordo.

questo scambio di commenti lo evidenzio dunque in fondo a questo post, con qualche mia ulteriore considerazione.

qui invece vorrei affrontare il rilancio della discussione che lui propone a proposito della Marletto, delle cui tesi mi ero occupato nel post linkato sopra, anche se in modo alquanto avventuroso, per non dire avventato.

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Antonio Carbonelli 12 GIUGNO 2021 ALLE 12:16 Quanto poi alla Marletto, direi che centri in pieno un altro dei problemi filosofici aperti ancora oggi, quando rileva che In definitiva, ciò di cui abbiamo bisogno è una teoria di ciò che rende la vita distinta dalla non vita.

con lo stesso spirito che non posso definire altro che sventato, mi avventuro in un tentativo di definizione, rilevando in premessa che, per cercarla, è opportuno muovere dalla riflessione che si svolge in ambito scientifico, piuttosto che dalla oscura tradizione che si auto-definisce filosofica in senso stretto

(ma la vera filosofia nei secoli è nata sempre da questo intreccio, tranne quando si trattava di porre qualche argine al rischio arrogante che la scienza si trasformasse in scientismo, cioè in una nuova religione: rischio quanto mai evidente ai nostri giorni).

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a me pare che la vita sia la caratteristica di quegli enti naturali che, destinati a corrompersi come tutto ciò che appartiene a quella che chiamiamo realtà, sono tuttavia in grado di produrre nuove strutture analoghe a loro che si mantengono per un tempo ulteriore.

in questa definizione la vita è tutto ciò che si muove fra due fenomeni opposti: la morte e la riproduzione, cioè la nascita: è vivo tutto ciò che nasce, che può riprodursi (indipendentemente dal fatto di farlo oppure no) e che muore.

non esiste vita dove non esiste morte, e la morte esige da ciò che è vivo la riproduzione, cioè in ultima analisi la nascita.

attendendo critiche puntuali a questo mio tentativo, vengo ora alle osservazioni di Antonio.

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il quale dice: A questo aspetto faccio cenno solo per inciso in Platone e Aristotele (punto PA328):

riporto allora l’intero passaggio, che muove da una citazione di Aristotele presa da uno dei suoi Trattati vari, intitolato Giovinezza e vecchiaia:

La vita e il possesso dell’anima si accompagnano ad un certo calore; nella vecchiaia anche un piccolo disturbo causa rapidamente la morte: il calore è scarso, dato che ne è stato consumato molto nel corso della vita, come quello di una fiamma tenue ed esile che si estingue anche per un piccolo movimento.

commenta Antonio: La metafora della fiamma che si estingue per rappresentare le persone più anziane […] è suggestiva. Anche se resta da spiegare cosa sia che rende vivo un essere vivente, cioè che fa sì che per un certo tempo più o meno lungo una certa materia abbia la proprietà della vita.

nella sua riposta a me, il problema è posto da Antonio in una maniera leggermente diversa:

ne tratto più approfonditamente in Realismo critico (RC85 ss.), quando mi chiedo “Cos’è che rende vivo un essere vivente? Cos’è che fa sì che una certa materia per un certo tempo sia animata, e a un certo punto finisca per non esserlo più?” E oso rispondere che “La filosofia, ma anche la scienza, sino ad oggi non hanno saputo fornire risposte esaurienti a questa domanda imbarazzante”.

provo a rispondere a questa domanda che è quella cruciale della nostra esistenza, attraverso un percorso mentale che la affronta, per così dire, lateralmente, dato che pare impossibile misurarsi con lei frontalmente: è troppo terribile e paurosa e ci impedisce la lucidità necessaria per risponderle.

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il punto di partenza che scelgo, infatti, non è la risposta alla domanda perché le cose vive sono vive, ma quella a quest’altra: perché le cose vive muoiono?

perché un fiume continua a scorrere nel tempo, mentre una vita umana si esaurisce dopo un certo numero di anni?

ma è facile accorgersi che la domanda è sbagliata e dipende soltanto dai limiti della nostra percezione immediata: anche il fiume muore, solo in una scala temporale diversa da quella della nostra esistenza individuale; verranno certamente a fermarne la corrente, nel tempo, un’era glaciale o gli effetti del riscaldamento globale.

quindi la domanda non è perché le cose vive muoiono, ma perché tutte le cose muoiono, sia quelle vive sia quelle non vive.

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non è difficile rispondere citando il secondo principio della termodinamica, cioè la legge dell’entropia: ogni struttura, per esistere, richiede un certo dispendio di energia, in particolare sotto forma di calore; e questo comporta l’inevitabile destrutturazione nel corso del tempo.

non sto ora ad affrontare nel dettaglio la spiegazione delle cause, connessa alla distribuzione probabilistica delle correlazioni nello spazio tempo (l’ho già fatto altre volte ripetendo le osservazioni di Rovelli, al quale consiglio di rivolgersi per una trattazione esaustiva).

dunque ho sbagliato a porre sopra la morte come condizione preliminare della vita? se la morte è una caratteristica universale delle cose, in che senso caratterizza la vita come pre-condizione?

credo di no, perché proprio la specifica risposta che le cose vive danno al problema universale della morte caratterizza appunto la vita; ma, se prescindiamo dalla morte necessaria, non riusciamo a cogliere la particolarità specifica della vita.

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torno all’esempio di prima del fiume, che scorre impetuoso e vitale e sembra una metafora splendida della vita stessa; eppure, se lo cancellano o un riscaldamento irreversibile oppure un crollo delle temperature, che trasformi la Terra in una palla di ghiaccio (è già avvenuto nella storia geologica del nostro pianeta), il fiume finisce, non lascia dietro di sé dei semi che gli permettano di rinascere in altra forma simile, prima di morire del tutto.

ma questo introduce, nel concetto di vita concreta, che dobbiamo usare, un ulteriore fattore, che non abbiamo considerato: ed è la brevità.

vi è una differenza nei tempi di esistenza delle cose, che è un ulteriore fattore determinante della differenziazione fra ciò che è vivo e ciò che non lo è, ed è la breve durata delle cose vive.

una montagna sussiste per milioni di anni, e anche per questo non è viva; un essere umano difficilmente raggiunge il secolo e un gatto i vent’anni, che sono inezie: per questo, loro sono, noi siamo, vivi.

e dunque la definizione data sopra va integrata in un punto fondamentale: la vita è la caratteristica di quegli enti naturali che, destinati a corrompersi come tutto ciò che appartiene a quella che chiamiamo realtà, ma in tempi brevi, sono tuttavia in grado di produrre nuove strutture analoghe a loro che si mantengono per un tempo ulteriore.

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mi si potrà obiettare che finora ho girato intorno al problema (come avevo del resto promesso di fare), ma senza dare nessuna risposta ancora al quesito centrale.

però vorrei sottolineare che abbiamo risposto alla domanda più grave: Cos’è che fa sì che una certa materia per un certo tempo sia animata, e a un certo punto finisca per non esserlo più? e la risposta è: la legge universale dell’entropia che destina alla dissoluzione tutto, non soltanto ciò che è vivo.

si noti la finezza inconsapevole con cui Aristotele collega la vita al calore e la fine della vita alla dissoluzione del calore.

non si conosceva la legge dell’entropia ai suoi tempi, cioè la necessaria dissoluzione di ogni forma di energia, ma è attorno ad un problema simile che anche la sua mente si arrovella.

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ma ci rimane allora da rispondere alla domanda più precisa: ma, allora, cos’è che rende vivo un essere vivente?

in altri termini: perché alcune cose non si accontentano di morire, ma si riproducono e dunque nascono, e cioè sono vive? (almeno fino a quando non muoiono).

ma adesso la risposta la abbiamo a portata di mano, è perfino evidente: perché sono effimere!

perché si dissolvono molto più rapidamente e perché sparirebbero subito senza lasciare traccia alcuna, se non fossero vive, cioè se non si riproducessero continuamente.

mi rendo bene conto che Antonio troverà questa riposta assolutamente insoddisfacente (e non è detto che pure io non mi senta un poco a disagio, osservandola): ma perché allora, perché, le cose non vanno proprio così?

perché le cose effimere, che diciamo vive, non sono apparse e subito scomparse? senza escogitare un sistema per sopravvivere come era possibile per loro, strutture vive, cioè altamente instabili.

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la mia risposta è vertiginosa e non mi aspetto che venga facilmente accettata: perché in qualche altrove delle possibilità questo effettivamente succede, ma quei mondi dove questo succede, dove la prima cellula nata non ha trovato il modo di riprodursi, prima di sparire,… quei mondi non diventano reali, perché in essi non si è creata nessuna coscienza e dunque nessuna realtà.

e dunque concludo: la vita è la caratteristica di quegli enti naturali, particolarmente instabili, destinati a corrompersi come tutto ciò che appartiene a quella che chiamiamo realtà, ma in tempi brevi, e che sono tuttavia in grado di produrre, prima della loro morte individuale, nuove strutture analoghe a loro che si mantengono per un tempo ulteriore, altrettanto breve, ma sono analogamente in grado di riprodursi – almeno fino a che le condizioni ambientali glielo consentono.

risposta che peraltro la maggior parte di noi non è in grado di accettare.

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ma ecco la discussione precedente sul significato del concetto di realtà, che avevo preannunciato che avrei messo alla fine del post; e ho fatto bene, perché ne costituisce la spiegazione ultima.

Antonio Carbonelli 12 GIUGNO 2021 ALLE 12:16 MODIFICA
Mauro (mi permetto anch’io di chiamarlo così) fa bene a riconoscersi in chi ipotizza che l’essere sia una categoria del pensiero: fu durante una conversazione nel mio studio qualche anno fa, commentando il passo di Gorgia L’essere non esiste; anche ammesso che qualcosa sia, non può essere conosciuto; e anche ammesso che sia compreso, non può essere comunicato (cfr. il mio Platone e Aristotele, al punto PA67), che proprio Mauro mi fece notare che lo stesso essere potrebbe non essere altro che una categoria del pensiero.
E ora fa anche un passo in più: nota che
il nostro linguaggio umano […] è sempre inadeguato e ci costringe a parlare di realtà e di cose che ESISTONO nello spazio e nel tempo, anziché di eventualità e di cose che DIVENTANO nello spazio tempo.
Ha proprio ragione: come facciamo a parlare di cose che esistono, se esse continuamente diventano?
Penso che una possibile risposta sia quella che tento nel commento al Cratilo di Platone (punto PA145): verso la fine del dialogo, Platone si fa scappare che “Nessuna conoscenza conosce ciò che conosce, se questo non sta fermo in nessun modo; e con questo ragionamento non ci saranno più né chi dovrà conoscere né ciò che dovrà essere conosciuto”.
Ma caro Platone, “non è che le cose debbano restare ferme solo perché altrimenti la nostra mente non avrebbe la possibilità di conoscerle”.
Cercherei piuttosto di indagare come la nostra mente possa conoscere la realtà, pur essendo questa in costante divenire. In fondo, tutti noi quando ci troviamo un palo lungo la strada ci guardiamo bene dall’andarvi a sbattere.
Penso che la soluzione dell’enigma stia nel meccanismo rilevato da Bergson nel 1907: tutta la realtà percepibile muta, prima o poi, ma la mente umana va per immagini fisse, come i fotogrammi delle prime pellicole cinematografiche.
È questo strano meccanismo che ci costringe a pensare a immagini fisse, e che ci porta a parlare di cose che esistono invece che di cose che diventano.

corpus2020 12 GIUGNO 2021 ALLE 23:53
grazie di questo commento denso e stimolante.
esige una risposta approfondita, e mi prendo qualche tempo per riflettere (soprattutto sull’ultimo punto) e rilanciare la discussione, che comunque già così mi pare abbia prodotto approfondimenti molto significativi.
a presto!

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come dicevo all’inizio, ci troviamo pienamente d’accordo, Antonio Carbonelli ed io (ma ci aggiungerei pure Aristotele, se correttamente interpretato, Berkeley e adesso anche Bergson – che non conoscevo per questo particolare aspetto).

ma allora dovremmo anche essere d’accordo su che cos’è la vita e su quel che ne consegue: che la vita crea se stessa e per farlo ha bisogno di una adeguata realtà…

e si crea anche questa…

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